Accolto dalla Suprema Corte il ricorso di un dipendente licenziato per motivi disciplinari da Poste Italiane S.p.A.

Accolto dalla Suprema Corte il ricorso di un dipendente licenziato per motivi disciplinari da Poste Italiane S.p.A.
 

Ai fini del rispetto delle garanzie previste dall’art. 7 dello St. lav., che il contraddittorio sul contenuto dell’addebito mosso al lavoratore può ritenersi violato (con conseguente illegittimità della sanzione, irrogata per causa diversa da quella enunciata nella contestazione) solo quando vi sia stata una sostanziale immutazione del fatto addebitato, inteso con riferimento alle modalità dell’episodio e al complesso degli elementi di fatto connessi all’azione del dipendente, ossia quando il quadro di riferimento sia talmente diverso da quello posto a fondamento della sanzione da menomare concretamente il diritto di difesa (cfr. Cass. n. 2935 del 2012). Si è anche affermato che il principio di immutabilità della contestazione dell’addebito disciplinare mosso al lavoratore ai sensi dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970 attiene alla relazione tra i fatti contestati e quelli che motivano il recesso e, pertanto, non riguarda la qualificazione giuridica dei fatti stessi, in relazione all’indicazione delle norme violate (Cass. n. 7105 del 1994). Tuttavia, il fatto contestato ben può essere ricondotto ad una diversa ipotesi disciplinare (dato che, in tal caso, non si verifica una modifica della contestazione, ma solo un differente apprezzamento dello stesso fatto), ma l’immutabilità della contestazione preclude al datore di lavoro di fare poi valere, a sostegno della legittimità del licenziamento stesso, circostanze nuove rispetto a quelle contestate, tali da implicare una diversa valutazione dell’infrazione diversamente tipizzata dal codice disciplinare apprestato dalla contrattazione collettiva, dovendosi garantire l’effettivo diritto di difesa che la normativa sul procedimento disciplinare di cui all’art. 7 della legge n. 300 del 1970 assicura al lavoratore incolpato (Cass. n. 6499 del 2011). La regola che presidia tali principi è quella della necessaria correlazione dell’addebito con la sanzione, e la medesima correlazione deve essere garantita e presidiata, in chiave di tutela della esigenza difensiva del lavoratore- che si sostanzia nel diritto a difendersi dall’incolpazione disciplinare esattamente in relazione a quanto contestatogli e posto a base del licenziamento – anche in sede giudiziale, in un contesto in cui il datore di lavoro è chiamato a dare conto dell’avvenuto corretto esercizio del potere disciplinare. Invero, anche in tale situazione le condotte del lavoratore non devono, nella sostanza fattuale, differire da quelle poste a fondamento della sanzione espulsiva, pena lo sconfinamento dei poteri del giudice in un ambito riservato alla scelta del datore di lavoro. E’ vero che il giudice può procedere ad una conversione del licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo, incidendo sulla cessazione del rapporto di lavoro con effetto immediato o con preavviso, ma ciò è possibile quando non vengano mutati i motivi posti a base della iniziale contestazione e quando la conversione non importi la necessita di accertare fatti nuovi e diversi da quelli inizialmente addotti dal datore di lavoro a sostegno del recesso (Cass. n. 7617 del 2000). Accanto ai profili sostanziali della violazione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970, sotto il profilo processuale il suddetto sconfinamento è sussumibile nel vizio di ultra o extrapetizione perché il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, altera gli elementi obiettivi della azione ovvero, sostituendo i fatti costitutivi della pretesa, emette un provvedimento diverso da quello richiesto oppure attribuisce o nega un bene della vita diverso da quello conteso.