L’avv. prof. Lorenzo Maria Dentici, partner dello studio legale DLCI, ha assistito con successo innanzi alla Suprema Corte di Cassazione un lavoratore che, per effetto dell’annullamento dei contributi figurativi, accreditati per i periodi di mobilità a causa del contemporaneo svolgimento di attività lavorativa autonoma, aveva subito il recupero della somma di €321.000, riscossa a titolo di pensione di anzianità dal 2001 al 2008.
La Corte territoriale – confermando la sentenza di primo grado – aveva annullato la pretesa dell’ente previdenziale escludendo nella specie, una condotta dolosa preordinata a conseguire immeritati benefici patrimoniali, sul presupposto che il lavoratore non avesse mai celato, all’INPS, lo svolgimento di attività lavorativa autonoma nel periodo di fruizione dell’indennità di mobilità (pur non avendone dato regolare comunicazione all’ente previdenziale), per avere l’assicurato provveduto al costante versamento dei relativi contributi. L’INPS, pertanto, già prima della liquidazione della pensione di anzianità e nel corso dell’erogazione dell’indennità di mobilità, era o avrebbe dovuto essere a conoscenza della situazione professionale del percettore. Applicava in definitiva la regola di settore, valida per le prestazioni previdenziali, dell’irripetibilità delle somme elargite sine titulo in assenza di dolo dell’accipiens.
L’INPS ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo che il recupero dell’indebito, originato dalla falsa attribuzione di contributi in assenza del titolo (rapporto di lavoro o evento coperto da contribuzione figurativa), era invece soggetto alla regola generale di ripetibilità dell’indebito oggettivo, ai sensi dell’art. 2033 c.c..
In accoglimento della tesi del pensionato, la sentenza di secondo grado è stata confermata.
La Corte di Cassazione, con sentenza n.10337 del 18 aprile 2023, ha avuto l’occasione per un’attenta disamina della questione dell’indebito previdenziale.
Nel caso di specie, invero, per effetto dell’annullamento è risultato caducato il provvedimento di erogazione dell’indennità di mobilità, fatta oggetto di ripetizione; a tale circostanza è seguito l’annullamento della relativa contribuzione figurativa, sulla cui base era stato riconosciuto, dall’INPS, il diritto alla pensione di anzianità oggetto della presente causa.
L’assicurato non ha mai celato all’ente previdenziale lo svolgimento dell’attività lavorativa autonoma nel periodo di fruizione dell’indennità di mobilità. Orbene, la Corte ha osservato che “il regime dell’indebito previdenziale ed assistenziale è connotato da tratti eccentrici rispetto alla regola della ripetibilità propria del sistema civilistico e dell’art. 2033 c.c., in ragione dell'”affidamento dei pensionati nell’irripetibilità di trattamenti pensionistici indebitamente percepiti in buona fede” in cui le prestazioni pensionistiche, pur indebite, sono normalmente destinate “al soddisfacimento di bisogni alimentari propri e della famiglia” (Corte Cost. 13 gennaio 2006, n. 1), con disciplina derogatoria che individua “alla luce della Cost., art. 38 – un principio di settore, che esclude la ripetizione se l’erogazione (…) non sia (…) addebitabile” al percettore (Corte Cost. 14 dicembre 1993, n. 431; da ultimo, v. Corte Cost. 27 gennaio 2023, n. 8, in motivazione)”.
Secondo la Corte le disposizioni che vengono in rilievo, e costituiscono la cornice normativa dell’obbligazione restitutoria, sono contenute nella L. n. 88 del 1989, artt. 52 e nella L. n. 412 del 1991, 13, sulle quali i giudici di legittimità più volte sono stati interpellata per chiarirne il perimetro.
La Corte rammenta anzitutto l’origine del principio ispiratore della soluti retentio per l’indebito pensionistico, a mente del R.D.L. n. 1422 del 1924, art. 80, comma 3, e la previsione secondo cui, decorso un anno dall’assegnazione della pensione liquidata dalla Cassa nazionale per le assicurazioni sociali (l’attuale INPS), le rettifiche di eventuali errori nella determinazione dell’importo “che non siano dovuti a dolo dell’interessato, non hanno effetto sui pagamenti già effettuati“.
Precisa che “l’eccesso di tutela che poteva derivarne, nei casi di inesistenza del diritto alla pensione, indusse la giurisprudenza a configurare un importante limite, consistente nel porre l’irripetibilità in relazione soltanto agli errori di liquidazione della pensione connessi alle operazioni di quantificazione della stessa (Cass. n. 1898 del 1988 e altre conformi). In conseguenza, sfuggivano alla restrizione dell’art. 80 cit., per ricadere nella disciplina codicistica dell’indebito oggettivo, sia i più solleciti interventi correttivi dell’ente previdenziale sul quantum, sia i casi di soppressione, totale o parziale, dell’erogazione della pensione, a causa di assegnazione illegittima ab origine, con l’effetto di cancellare o ridurre il trattamento in godimento, nell’esercizio del potere di annullamento della pensione per ragioni incidenti, in modo negativo, sulla stessa costituzione del diritto”.
Invero “l’intera disciplina è stata ripensata dalla L. n. 88 del 1989, art. 52 che, abrogato, per incompatibilità, il R.D.L. n. 1422 del 1924, art. 80, ha eliminato ogni distinguo derivante dall’epoca o dal motivo dell’intervento rettificatorio dell’ente previdenziale e ha fatto del dolo dell’accipiens la categoria cardine, diversificando, in modo accentuato, l’indebito pensionistico dalla disciplina codicistica, in coerenza con i precetti costituzionali (Corte Cost. n. 383 del 1990)”.
La L. n. 88 cit., art. 52 costituisce disciplina e principio di settore dell’indebito pensionistico. Nella sua formulazione iniziale prevedeva, al comma due, l’impossibilità del recupero dei ratei di pensione (e di pensione sociale) erogati per errore – e quindi indebitamente riscossi – (a carico dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti dei lavoratori dipendenti, delle gestioni obbligatorie sostitutive o, comunque, integrative della medesima, della gestione speciale minatori, delle gestioni speciali per i commercianti, gli artigiani, i coltivatori diretti, i mezzadri e colini), salva l’imputabilità dell’indebita percezione al dolo dell’interessato.
L’ampia tutela concessa all’accipiens subiva una contrazione ad opera della legge n. 412 del 1991, art. 13, che subordina l’irripetibilità ad alcune condizioni: a) il pagamento delle somme in base a formale, definitivo provvedimento all’interessato; c) l’errore, di qualsiasi natura, imputabile all’ente erogatore; d) la insussistenza del dolo dell’interessato, cui è parificata, quoad effectum, la omessa o incompleta segnalazione di fatti incidenti sul diritto o sulla misura della pensione che non siano già conosciuti dall’ente competente.
Dalla combinazione delle predette disposizioni deriva la disciplina speciale dell’indebito pensionistico I.N.P.S., imperniata sull’irripetibilità della prestazione pensionistica indebita subordinata alle quattro condizioni dianzi richiamate, la mancanza di una (qualunque) delle quali esclude la irripetibilità dell’indebito e non già la mera riconducibilità della fattispecie alla speciale disciplina di settore per attrarre l’obbligazione restitutoria nella regola civilistica della ripetibilità, di cui all’art. 2033 c.c.
Osserva la Corte: “la questione di causa consiste nell’individuare la disciplina applicabile allorquando venga meno la provvista contributiva per il diritto al trattamento pensionistico e la prestazione pensionistica liquidata risulti indebita in conseguenza dell’attribuzione di una posizione assicurativa fittizia: nella specie, il periodo contributivo di undici mesi, a partire dal 2000, accreditato in favore del lavoratore nella condizione di fruitore della mobilità, è venuto meno a causa del contemporaneo svolgimento di attività di lavoro autonomo, e l’annullamento disposto dall’INPS ha inciso sulla provvista contributiva utile con l’effetto del venir meno del requisito contributivo minimo per l’accesso alla pensione di anzianità (nel periodo novembre 2001 a dicembre 2008)”.
Per l’INPS, l’annullamento della posizione assicurativa illegittima, con recupero dell’indebito originato dalla falsa attribuzione di contributi in assenza di titolo, rapporto di lavoro o evento coperto da contribuzione figurativa, rientra sotto il fuoco della regola generale civilistica di ripetibilità dell’indebito oggettivo (art. 2033 c.c.). Infatti l’accesso alla prestazione previdenziale, postulerebbe per l’ente previdenziale sempre la sussistenza di una corretta posizione assicurativa, costruita su un titolo, esistente, idoneo a legittimarne l’erogazione, e tale titolo può essere il rapporto di lavoro (contributi obbligatori) o un evento tutelato, come la condizione di mobilità (contributi in parte o in toto figurativi), sicché una volta annullata la posizione assicurativa il recupero del trattamento pensionistico, indebitamente percepito e, ormai, sine titulo, segue la regola generale dell’art. 2033 c.c..
Nel caso di specie per la Corte “sicuramente addebitabile all’INPS è il mancato rilievo della esistenza di un periodo contributivo coperto sia da contribuzione figurativa sia da contribuzione effettiva, trattandosi di verifica necessariamente emergente nella procedura amministrativa di liquidazione della prestazione”
Nell’ipotesi esaminata l’ente previdenziale, nell’attribuire il trattamento pensionistico, aveva il dovere di svolgere adeguati e complessivi controlli in ordine alla posizione assicurativa, in mancanza dei quali l’errore è imputabile all’INPS (nella specie, un’adeguata verifica in ordine alle provviste contributive avrebbe fatto cogliere, all’evidenza, la contestualità del versamento di contribuzione figurativa ed effettiva, in un medesimo arco temporale, sia pure in diverse gestioni ma comunque in riferimento al medesimo assicurato). In altri termini “nessuna condotta, attiva od omissiva, dell’assicurato aveva reso più difficile o oltremodo disagevole il riscontro, da parte dell’ente previdenziale, preordinato al preliminare vaglio dell’intera provvista contributiva dell’assicurato, ai fini della sussistenza o meno del diritto al trattamento pensionistico di anzianità richiesto”.
Riscontrato, pertanto, l’errore imputabile all’INPS, la Corte esamina la condotta dell’accipiens osservando che “il dolo del pensionato, pur non potendo aprioristicamente considerarsi presunto sulla base del semplice silenzio, deve tuttavia ritenersi sussistente allorché sia stato disatteso l’obbligo legale di comunicare all’INPS determinate circostanze, rilevanti ai fini della sussistenza e della misura del diritto a pensione” e che, inoltre, “la qualificazione dell’elemento soggettivo costituisce attività tipica del giudice e compito del giudice è l’accertamento del dolo, agli effetti della disciplina applicabile dell’indebito previdenziale e, dunque, l’indagine, nei termini dianzi esposti, sul dolo del percettore di trattamenti previdenziali indebiti rimane insindacabile in sede di legittimità”.
Secondo la Corte di Cassazione “a tali principi si è attenuta la Corte di merito allorché, ricondotta la fattispecie nell’alveo dell’indebito previdenziale e accertate, in fatto, la sussistenza, in concreto, della non addebitabilità al percipiente dell’erogazione non dovuta e la presenza di una situazione idonea a creare legittimo affidamento, ha escluso una condotta dolosamente preordinata a conseguire immeritati benefici patrimoniali, per non avere l’assicurato mai celato, all’INPS, lo svolgimento di attività lavorativa autonoma, provvedendo, anzi, al puntuale e costante versamento dei relativi contributi nella gestione separata, ragione per cui l’INPS, già prima della elargizione della pensione di anzianità, e in costanza del versamento dell’indennità di mobilità, era o avrebbe dovuto essere a conoscenza della situazione professionale del lavoratore”.
Alla luce di tali argomenti il ricorso dell’ente previdenziale è stato rigettato; tuttavia, la novità della questione ha condotto la Corte a disporre la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.
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