Un dipendente di Poste Italiane si era reso responsabile di gravi irregolarità nello svolgimento di operazioni presso un ufficio postale. Egli, nell’effettuare delle operazioni di disinvestimento e nuovo investimento, non aveva infatti raccolto personalmente la sottoscrizione del correntista, poi risultato deceduto. Era, quindi, emerso, a seguito dei controlli ispettivi, che la firma sui moduli autorizzativi era stata apposta da un familiare del defunto, cui gli stessi erano stati consegnati in virtù del rapporto di fiducia con il cliente, ciò però in violazione dei regolamenti aziendali. Ritenendo il licenziamento illegittimo, il dipendente si è rivolto al Tribunale in funzione di giudice del lavoro. La difesa del lavoratore non ha mai negato la sussistenza del fatto contestato, ma ha ritenuto sproporzionato il licenziamento visto che il CCNL puniva una simile condotta con la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione qualora improduttiva di danno per la società o per terzi.
La Corte di Appello di Palermo aveva invece ritenuto legittimo il licenziamento, ma la decisione è stata ribaltata dalla Corte di Cassazione con sentenza del 20 novembre 2019. Quest’ultima ha annullato la sentenza di secondo grado sfavorevole al lavoratore licenziato, poiché i giudici di appello avevano esaminato elementi non oggetto degli addebiti disciplinari in violazione del principio di immutabilità della contestazione.
Avverso la nuova decisione di appello (questa volta favorevole al lavoratore) Poste Italiane ha proposto nuovamente ricorso in Cassazione sostenendo l’erroneità della sentenza impugnata là dove ha respinto anche la tesi di Poste sulla riconducibilità dell’addebito alla previsione di cui all’art. 54, comma 5, lett. g) CCNL (sanzionata con il licenziamento con preavviso e non richiedente quale elemento costitutivo il verificarsi di alcun danno).
La Suprema Corte (con ordinanza depositata il 12 dicembre 2022) ha dichiarato inammissibile il motivo di ricorso “poiché non si confronta con la complessiva ratio decidendi della sentenza impugnata, che ha respinto l’ipotesi di qualificazione della condotta contestata ai sensi dell’art. 54, comma 5, lett. g) non solo in ragione della violazione del principio di immutabilità ma “in quanto in ogni caso priva di fondamento” per non essere “i fatti addebitati e accertati indice di incapacità” del dipendente”.
La Società ha poi contestato l’interpretazione data dai giudici di appello all’art. 54, comma 5, lett. g) per avere essi inteso la nozione di “incapacità” come legata alle conoscenze generali, alla perizia e all’abilità del lavoratore, senza considerare che la lettera della disposizione consente di desumere l’incapacità anche da un singolo fatto che deve essere talmente grave da far ritenere “piena” l’incapacità e quindi il lavoratore non in grado di compiere “adeguatamente” tutti gli obblighi di servizio. L’incapacità, secondo la lettura di Poste Italiane sarebbe sinonimo di mancanza di attitudine e di adeguatezza al ruolo.
Secondo la Cassazione l’interpretazione data dalla Corte di rinvio è stata assolutamente coerente alla lettera e alla ratio della disposizione contrattuale, in cui il termine “incapacità”, riferito agli obblighi di servizio, è adoperato in connessione col “rendimento insufficiente” e quindi come relativo al livello delle competenze e di utile apporto al servizio da svolgere. La pretesa di Poste Italiane, volta ad intendere il termine “incapacità” come sinonimo di adeguatezza al ruolo, secondo la Corte “appare contraria al criterio di interpretazione sistematica poiché porterebbe a sovrapporre il parametro della “incapacità” a quello della negligenza o della inosservanza di leggi e regolamenti, invece espressamente contemplati da altre previsioni del contratto collettivo”.
Poste Italiane è stata altresì condannate al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.
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