L’avv. prof. Lorenzo Maria Dentici e l’avv. Luigi Maini Lo Casto, partner dello studio legale DLCI, hanno assistito con successo innanzi al Tribunale di Agrigento una società editrice di un noto quotidiano siciliano ottenendo il rigetto del ricorso presentato da una lavoratrice che richiedeva la il riconoscimento della natura subordinata dell’attività giornalistica prestata.
La giornalista, legata da un contratto di collaborazione, ha infatti la riqualificazione del rapporto di lavoro come subordinato e la condanna del datore di lavoro al pagamento delle differenze contributive connesse.
La società editrice ha contestato tali assunti, sostenendo invece la genuinità della collaborazione e il mancato assolvimento dell’onere della prova sulla natura del rapporto, nonché circa gli elementi necessari per la determinazione della retribuzione in astratto dovuta.
Il Tribunale di Agrigento – sposando pienamente la linea difensiva dei legali della società – ha rigettato il ricorso sulla scorta di una rigorosa applicazione dei criteri di riparto dell’onere della prova di cui all’art. 2697 del c.c.. La norma dispone che per far valere un diritto in giudizio l’onere di dimostrare i fatti che ne costituiscono il fondamento ricade sulla parte istante. Ne conseguiva che, ai fini dell’accertamento del vincolo di subordinazione è la prova della disponibilità del giornalista nei confronti dell’editore, anche nell’intervallo tra una prestazione e l’altra, per evaderne richieste variabili e non sempre predeterminate o predeterminabili.
Chiarendo come deve essere inteso il requisito dell’inserimento del giornalista nell’organizzazione aziendale e del suo assoggettamento agli altrui poteri direttivi e organizzativi, il Tribunale ha precisato: “deve ritenersi che i suddetti requisiti connotanti l’attività del giornalista prestata nelle forme della subordinazione non sussistano nel caso di specie, posto che l’odierna ricorrente – sulla quale gravava ex art. 2697 c.c. il relativo onere probatorio – ha genericamente allegato lo svolgimento di attività lavorativa (…), senza però dimostrare in giudizio in che modo si sarebbero manifestati la continuità della prestazione giornalistica e, soprattutto, il vincolo di permanente disponibilità nei confronti della società resistente; sul punto, occorre altresì precisare, per mera completezza espositiva, che una prova di tal genere non poteva essere raggiunta neppure mediante l’ammissione delle prove orali articolate in ricorso, stante la genericità dei capitoli ivi indicati.”
Il Tribunale ha conseguentemente rigettato la connessa richiesta di differenze retributive osservando: “se da un lato il professionista – il quale assuma di essere creditore per l’attività professionale svolta – ha l’onere di dimostrare l’entità delle prestazioni al fine di consentire la determinazione quantitativa del suo compenso (cfr. Cass. 11 marzo 1997, n. 2176), in quanto “il compenso per prestazioni dei professionisti, ove non sia stato liberamente pattuito, va determinato in base alla tariffa ed adeguato all’importanza dell’opera” (cfr. Cass. 15 dicembre 2021, n. 40301), dall’altro, ai fini della liquidazione in via equitativa del compenso ex art. 2233 c.c., il giudice di merito deve fare riferimento ai criteri della natura, della quantità e della qualità dell’attività svolta; ne consegue che se – come nel caso di specie – la parte ricorrente non ha allegato né tantomeno dimostrato in giudizio l’attività svolta sotto il profilo quantitativo e, soprattutto, qualitativo, la domanda deve essere rigettata, poiché la richiesta di liquidazione equitativa non esonera l’interessato dal fornire al giudice gli elementi probatori indispensabili affinché il giudice possa procedervi”.
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