L’avv. prof. Lorenzo Maria Dentici, partner dello studio legale DLCI ha assistito con successo una società di trasporto urbano nel giudizio promosso da un lavoratore innanzi alla Corte di Cassazione volto ad ottenere il versamento della contribuzione sulle differenze retributive per le mansioni superiori svolte.
In particolare, dopo che nel 2001 la Corte di appello di Palermo aveva dichiarato il diritto del lavoratore trattamento retributivo relativo al “livello sesto, operaio qualificato” con decorrenza dal giugno 1990, condannando quest’ultima al pagamento delle relative differenze, lo stesso aveva agito in giudizio per ottenere anche i contributi.
La Corte di appello aveva giudicato prescritto il credito contributivo in quanto la denuncia del lavoratore, di cui alla L. n. 335 del 1990, art. 3, comma 9, non era intervenuta nel quinquennio dalla scadenza per il versamento dei contributi medesimi. Per la Corte territoriale, infatti, il giudizio promosso dal lavoratore per il riconoscimento delle differenze retributive non precludeva l’esercizio dell’azione volta ad ottenere il diritto alla regolarizzazione contributiva, sicché non veniva in rilievo la disposizione di cui all’art. 2935 c.c.. Quest’ultima, invero, si riferisce all’impossibilità legale di far valere il diritto e non già ad ostacoli di mero fatto, quale la scelta difensiva, in concreto, operata.
La tesi della società è stata confermata dalla Corte di Cassazione, sezione lavoro, che ha rigettato il ricorso, ritenendo l’intervenuta prescrizione della contribuzione.
In particolare, secondo la Suprema Corte, “i contributi sono dovuti dal datore di lavoro in ragione della sussistenza del rapporto lavorativo (ex plurimis, v. Cass. n. 19398 del 2014). L’obbligazione contributiva – e in modo speculare il diritto del lavoratore alla contribuzione nasce ex lege per effetto del rapporto di lavoro. Entrambe le posizioni soggettive sono, poi, legate alla retribuzione “dovuta” e, dunque, all’effettivo atteggiarsi del rapporto di lavoro, a prescindere dall’accertamento giudiziale dello stesso”. Per i giudici di legittimità “in altre parole, il diritto alla (esatta) contribuzione sorge automaticamente per effetto della prestazione lavorativa e del diritto alla retribuzione. Ciò solo abilita il lavoratore a chiamare in causa il datore di lavoro e l’ente previdenziale, al fine di accertare l’obbligo contributivo del primo e sentirlo condannare al versamento dei contributi (sempre che ciò sia ancora possibile giuridicamente) nei confronti del secondo. Correttamente, allora, la Corte di appello ha escluso l’operatività dell’art. 2935 c.c.”.
Ne consegue che “l’impossibilità di agire, atta a bloccare il corso della prescrizione, non deve derivare da fatto proprio del titolare del diritto. Per quanto innanzi, l’attesa del riconoscimento, in sede giudiziale, del superiore inquadramento (e, in via derivata, del diritto alla maggiore retribuzione) configura solo una scelta del lavoratore e non un percorso obbligato tale da integrare la situazione tutelata dall’art. 2935 c.c.. In definitiva, il ricorrente avrebbe potuto agire per far valere, contestualmente, sia l’obbligazione retributiva che quella, inscindibilmente collegata al riconoscimento della maggiorazione salariale, di natura contributiva. La pretesa impossibilità altro non è che la risultante di un’opzione difensiva”. Per maggiori informazioni puoi contattare lo studio legale DLCI al n. 091.6811454 o puoi scrivere all’e-mail segreteria@dlcilaw.it. Seguiteci anche sui Social: Facebook e Linkedin.