L’avv. prof. Lorenzo Maria Dentici e l’avv. Luigi Maini Lo Casto, partner dello studio legale DLCI, hanno ottenuto il riconoscimento del carattere discriminatorio del mancato computo dei periodi di congedo per maternità e parentale ai fini del servizio effettivo nelle selezioni per incarichi di posizione organizzativa dell’Agenzia delle Entrate.
In particolare, una dipendente aveva partecipato nel 2018 a una procedura d’interpello per il conferimento di posizioni organizzative, per lo svolgimento di incarichi di elevata responsabilità, alta professionalità o particolare specializzazione.
La stessa non si era classificata utilmente nella graduatoria in quanto l’Agenzia non aveva valutato integralmente il servizio prestato. La stessa dal mese di ottobre 2008 al luglio 2010 aveva usufruito di congedi per maternità e parentali e tali periodi non sono stati considerati come effettivi dal datore di lavoro stante l’assenza della prestazione.
La lavoratrice ha, quindi, adito il Tribunale di Enna sostenendo l’esistenza di una discriminazione legata alla fruizione dei predetti congedi. Il giudice di primo grado ha rigettato il ricorso, osservando che nella procedura in esame i periodi rilevanti ai fini dell’attribuzione dei punteggi erano quelli funzionali a valorizzare l’attività lavorativa effettivamente svolta che avesse potenzialmente apportato un arricchimento professionale e un supposto miglioramento delle abilità del dipendente/candidato, con la conseguenza che non potessero essere computati i periodi di effettiva assenza dal servizio quali quelli della lavoratrice in costanza di maternità, utili solo ai fini della determinazione dell’anzianità maturata per la quantificazione del trattamento pensionistico.
La lavoratrice così ha impugnato la sentenza di primo grado innanzi alla Corte di Appello di Caltanissetta, che ha riformato la sentenza di primo grado, accogliendo la ricostruzione offerta dai propri legali.
Secondo la Corte di Appello nissena “l’interpretazione adottata dal tribunale sembra in contrasto non solo con la lettera del bando di selezione (…) – in esso alcun elemento verbale facendo riferimento alla necessità che l’attività di servizio valutabile ai fini dell’attribuzione del punteggio di cui al punto 6.2 dello stesso bando dovesse essere solo quella realmente prestata in ufficio, prevedendosi al riguardo soltanto, per quel che qui interessa, che: “per ogni anno di servizio svolto, nel corso degli ultimi dieci anni, in aree di funzioni diverse da quella per la quale era stata presentata la domanda di interpello, purché si tratti di periodi di servizio della durata complessiva di almeno tre anni”, parlandosi dunque di periodi di servizio e non di sevizio effettivo – ma anche con il principio di non discriminazione di derivazione comunitaria che a partire dalla nota direttiva n. 2006/54, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego”.
Quest’ultimo “ha determinato l’ingresso anche nel nostro ordinamento del principio secondo cui è necessario “prevedere esplicitamente la tutela dei diritti delle lavoratrici in congedo di maternità, in particolare per quanto riguarda il loro diritto a riprendere lo stesso lavoro o un lavoro equivalente e a non subire un deterioramento delle condizioni di lavoro per aver usufruito del congedo di maternità nonchè a beneficiare di qualsiasi miglioramento delle condizioni lavorative cui dovessero aver avuto diritto durante la loro assenza”, principio che, già sancito già dalla L. n. 300 del 1970, art. 15, come modificato dal D.Lgs. n. 216 del 2003, è stato poi ribadito dal D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 3 e dal D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 25, comma 2 bis entrambi come modificati dal D.Lgs. n. 5 del 2010, che hanno esteso il divieto di atti e comportamenti discriminatori anche alla genitorialità, con particolare riguardo a “ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonchè di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità o dell’esercizio dei relativi diritti“.
In particolare, per il comma 2 bis dell’art. 25 del d.lgs. n. 198/2006: “costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti”.
Sulla scorta di tale ricostruzione “l’esercizio del diritto – già riconosciuto all’epoca dei fatti anche ai padri e non solo più soltanto alle madri lavoratici, come in passato – a godere delle prerogative legalmente previste a favore dei genitori, qualunque ne sia il sesso, nella rilevante prospettiva delle necessità di cura della prole in tenera età, non può costituire ragione per giustificare una disparità di trattamento, anche di occasioni di lavoro, rispetto ad altre categorie di lavoratori, ciò ovviamente tutte le volte in cui l’effettiva presenza in ufficio non sia elemento costitutivo del diritto”.
Sulla scorta di tali principi del tutto immotivata è apparsa, ad avviso della Corte, l’affermazione contenuta nella sentenza di primo grado secondo cui “nella procedura in esame i periodi rilevanti ai fini dell’attribuzione dei punteggi sono funzionali a valorizzare l’attività lavorativa effettivamente svolta che abbia potenzialmente apportato un arricchimento professionale ed un supposto miglioramento delle abilità del dipendente/candidato, situazione che non può riscontrarsi in un dipendente assente dal servizio e che non svolge attività lavorativa alcuna”.
Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte ha ritenuto che con il riconoscimento dei periodi di congedo la lavoratrice si sarebbe collocata utilmente nella graduatoria e ha condannato l’Agenzia delle Entrate al risarcimento del danno subito pari alle retribuzioni e all’indennità di risultato (nella misura base) perdute per effetto del mancato conferimento della posizione organizzativa.
L’Agenzia è stata condannata altresì a due terzi delle spese del doppio grado per il resto compensate tra le parti.
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